Chi si trova a seguire con occhio critico l’universo dell’informazione italiana, cartacea, televisiva o digitale che sia, non ha potuto non notare il progressivo imbarbarimento dell’informazione stessa. E il completo fallimento di quella stramba teoria che sosteneva che la diffusione del social web avrebbe automaticamente migliorato la qualità dell’informazione.
Il recente caso di Duina Matei, la donna condannata per l’omicidio preterintenzionale di Vanessa Russo, avvenuto otto anni fa nella metro di Roma, è indicativo. Avendo ricevuto una condanna a sedici anni, che per un omicidio preterintenzionale non è poco, avendo passato già metà della condanna in carcere e dimostrato ravvedimento Duina otteneva la semilibertà. Apriti cielo: avendo ella postato su Facebook delle foto in cui si trovava al mare ed essendo queste foto trovate da qualche “giornalista” di qualche gazzetta locale si apriva la porta al peggiore populismo. Alla fine il giudice di sorveglianza le revocava il beneficio della semilibertà con motivazioni risibili. In questa vicenda possiamo notare una serie di attori che hanno agito affinchè si arrivasse a ciò: in primo luogo il magistrato di sorveglianza stesso che ha deciso che la vox populi è fonte di diritto, in secondo luogo le varie gazzette, cartacee o web che siano e, in terzo luogo, il famigerato “popolo del web”, quella massa informe, atomizzata e influenzabile di utenti, tra cui una buona fetta di analfabeti funzionali.
Quando, quasi un decennio fa, iniziava ad emergere il fenomeno dei social network c’era chi si diceva convinto che questi avrebbero automaticamente portato ad un incremento della trasparenza e della qualità dell’informazione, aprendo le porte ad un citzein journalism diffuso. In questi dieci anni invece quello che abbiamo ottenuto è stata un’informazione fatta di articoli sempre meno approfondita e orientata verso l’emotività perchè questa è ciò che va messo a valore sui social network: il citzein journalism si è fare foto per segnalare ai giornali locali, con tono indignato per il degrado, i barboni che dormono sulle panchine; la trasparenza è il social manager della testata che decide che titolo dare in base a quello che garantirà più interazioni, ovvero entrate pubblicitarie.
Tutti i casi di cronaca nera recenti hanno dovuto scontare questo passaggio per le forche caudine del popolo del web. Inutile dire che tutto questo influenzi, come ben si è visto nel caso della Matei, le decisione dei magistrati andando a contribuire ad un inasprimento di una società già di per sé repressiva.
E non si faccia l’errore di credere che questa modalità di fare informazione riguardi solo giornali locali o testate telematiche: i grandi giornali nazionali o sovra-regionali utilizzano, seppure con maggiore eleganza, le stesse modalità. Gramellini, dal suo fondo quotidiano sulla Busiarda, si univa al linciaggio della Matei fornendo argomenti digeribili anche alle anime belle per contribuire al massacro. Identico il ruolo, non in questo ma in altri casi, di Michele Serra su la Repubblica, memorabile quando dall’altro della sua poltrona giustificava l’omicidio barbaro e a sangue freddo di Davide Bifolco da parte di un carabiniere. In questo caso, di cui già parlammo in “Note a margine di un omicidio” a settembre 2014 (http://tinyurl.com/note-omicidio) emergeva anche la componente razzista e antimeridionale dell’opinionista de la Repubblica. Il 7 aprile 2016 Stefano Folli, già dirigente del PRI è riuscito, sempre dalle colonne de la Repubblica, a fare il bis: chi il giorno prima ha contestato Renzi a Napoli, centri sociali in primis, è manovrato da logiche camorriste. Non solo: qualsiasi contestazione che venga da Napoli è per sua natura di origine Sanfedista. Noi non dubitiamo che Folli sia convinto di quello che scrive: stronzate di questo calibro rientrano perfettamente nel DNA degli intelettuali organici dell’attuale ceto politico. Ci limitiamo a rilevare un fatto: Folli non è l’ultimo arrivato, non è un oscuro giornalista di una gazzetta provinciale, è un editorialista di punta di molti giornali da anni, è stato anche direttore del Corriere della Sera. E non è neanche un arrogante in malafede come Rondolino. Quello che emerge è quindi un pensiero strutturalmente razzista e classista che viene poi a sua volta amplificato dai social media. Perchè le opinioni di un Serra, di un Gramellini o di un Folli ricevono ampia visibilità sui social network e dettano l’agenda della discussione del giorno.
Di queste narrazioni tossiche ci siamo occupati più volte, e tante più volte le abbiamo viste all’azione.
Tanto per fare un esempio spicciolo: moltissime persone sono convinte che i rifugiati che giungano in Italia siano ospitati in strutture alberghiere di lusso e non in CARA e CIE fatiscenti e militarizzati, che vengano nutrite con costosi e raffinati cibi e non con il cibo preparato al massimo ribasso, che ricevano addirittura un sussidio di trenta, o cinquanta, a seconda delle versioni, euro al giorno. Leggende metropolitane, balle razziste diffuse ad arte da piccoli imprenditori del web, amplificate da siti riconducibili ad organizzazioni fasciste. Eppure queste minchiate sono diventate parte del “comune sentire”. Per non parlare dell’enorme quantità di bufale che gira in ambito scientifico-medicale.
Insomma: i social media, per lo meno nel contesto italiano, ben lungi dall’avere aiutato a creare reti informative trasparenti e obiettive hanno aumentato il livello da propaganda in circolazione. Non ce ne stupiamo: l’informazione è mercato e, anzi, al momento è uno dei mercati più floridi del pianeta.
A noi il compito di trarne conseguenze e percorsi di segno opposto.
lorcon